E’ forte il rapporto che lega Verdi alla terra: i primi proventi ottenuti con le sue opere vengono impiegati nell’acquisto di fondi agrari che nel corso del tempo si estendono a formare una vasta proprietà situata a nord di Busseto, tra l’Ongina, l’Arda e la confluenza di questi due fiumi con il Po. Solo una parte di questa vasta proprietà è coltivata direttamente da Verdi, sotto la guida di Mauro Corticelli, già impresario teatrale e buon amico di Giuseppina Strepponi, che eserciterà per molti anni le funzioni di intendente a Sant’Agata. Il resto della proprietà è dato in affitto o a mezzadria a piccoli coltivatori che si servono di numerosi braccianti per il lavoro dei campi.
L’amore di Verdi per la sua terra emerge chiaramente anche dal fatto che il luogo in cui soggiorna più volentieri è Villa Sant’Agata, dove si trattiene con la moglie Giuseppina per tutta la bella stagione, dall’aprile all’autunno. La vita che vi svolge è quella del ricco possidente, tra partite di caccia, lunghe passeggiate a piedi o a cavallo, ma anche pronto a impegnarsi in prima persona nei lavori agricoli ed edilizi. Una vita a tal punto appagante da spingerlo regolarmente a procrastinare il più possibile la partenza per Genova dove i coniugi, soprattutto per desiderio della moglie, che mal sopportava la pioggia, la nebbia e il freddo della Bassa Padana, si recavano a svernare. Un altro elemento che ci parla del rapporto stretto tra il Maestro e la sua terra è il fatto che a molti alberi da lui piantati di propria mano nel parco della villa, ha dato il nome di sue opere: al platano Rigoletto, alla quercia Trovatore, al salice Traviata.
Il periodo storico in cui Verdi si trova a gestire la sua cospicua proprietà coincide con una grave crisi agraria che comincerà a far sentire i suoi effetti a partire dal 1877-1878, aggravando bruscamente le condizioni delle popolazioni contadine che costituivano ancora il 70% della popolazione attiva. L’afflusso di crescenti quantità di cereali a prezzi competitivi con quelli della produzione nazionale finisce per provocare un notevole peggiormento del livello di vita di mezzadri e braccianti, peraltro già precarie, anche quando le condizioni erano di per sé favorevoli. Del resto, l’avvento della Sinistra al potere che propugnava sulla carta una lunga serie di riforme, dall’istruzione obbligatoria all’estensione del diritto di suffragio fino a un nuovo sistema fiscale, si era rivelata una forte delusione per i ceti più svantaggiati: la democratizzazione del Paese, al di là di qualche mero ritocco di facciata, naufraga di fronte a un esercizio del potere che, attraverso la pratica del trasformismo, tende ad attirare nella propria orbita qualsiasi voce dissonante per neutralizzarla e omologarla. Un tipo di governo che certamente a Verdi non poteva piacere e che lo spinge ad affermare in una lettera al conte Arrivabene del 27 maggio 1881: “Quello che domando si è che quelli che reggono la cosa pubblica siano Cittadini di grande ingegno e specchiata onestà […] Ho un triste presentimento sul nostro avvenire! I Sinistri distruggeranno l’Italia”.
Di fronte a questa situazione il grande possidente Verdi cerca di intervenire correggendo le ingiustizie e alleviando le miserie del popolo attraverso un’azione filantropica basata su un atteggiamento paternalistico che lo porta a respingere con assoluta fermezza ogni idea di rivolgimento sociale, ma anche a rifiutare l’esercizio della forza su una popolazione che non ha né lavoro né pane. Dunque da un lato la riprovazione verso la brutalità della repressione poliziesca contro masse inermi, dall’altro un totale rigetto nei confronti dei movimenti popolari e socialisti tendenti alla destabilizzazione dell’assetto costituito, all’interno del quale Verdi era riuscito a conquistarsi a duro prezzo una posizione privilegiata. Inasprire oltre misura le condizioni del popolo significava per Verdi dare man forte ai demagoghi e mettere in pericolo l’ordine sociale.
Il Maestro riconferma qui la svolta da lui compiuta in età giovanile in ambito politico, quando da fervente mazziniano si era trasformato in un convinto assertore della strategia di Cavour. Non meraviglia dunque che ritenesse che le masse contadine andavano guidate con mano ferma, ma caritatevole: quindi distribuzioni di denaro e di derrate alimentari ai bisognosi, assistenza all’infanzia abbandonata, sostegno ai braccianti rimasti senza lavoro. Una filantropia che coinvolge però, a un’analisi più attenta, un graduale cambiamento di prospettiva nei confronti di quella terra verso cui Verdi ha sentito fin dall’inizio una attrazione irresistibile: se all’inizio l’investimento dei suoi primi guadagni nell’acquisto di fondi agricoli era dovuto al desiderio di assicurarsi un’entrata per il futuro, ora che la sua ricchezza, dovuta principalmente alle royalties versategli da editori e impresari italiani e stranieri, lo metteva al riparo da qualsiasi rovescio di fortuna, dalla terra non si aspettava più un guadagno quanto piuttosto il dovere di fare la sua parte per migliorare la vita delle masse popolari. In una lettera sempre all’amico Arrivabene del 23 dicembre 1881 Verdi afferma: “L’anno passato ho fabbricato una cascina, quest’anno due ancor più grosse: e sono là circa un duecento operai che hanno lavorato fino ad oggi, ed ai quali ho dovuto dare disposizioni per lavorar in avvenire appena il gelo lo permetterà. Sono lavori inutili per me perché queste fabbriche non faranno che i fondi mi diano un centesimo più di rendita, ma tanto tanto, la gente guadagna e nel mio villaggio la gente non emigra”.
La terra diventa così per Verdi non più oggetto di possesso e fonte di arricchimento personale, ma il mezzo con cui tenere impiegati operai, braccianti e fittavoli, delle cui esistenze un Verdi, pur senza dubbio nel profondo conservatore e paternalista, sente comunque l’obbligo di farsi carico.