Alla scoperta delle opere verdiane attraverso quattro sezioni: ne “L’opera si racconta” un filmato RAI introduce al contesto storico-politico, all’ascolto e ad alcuni approfondimenti, fornendo la trama dell’opera; in “Documenti” si possono consultare il libretto, le fonti letterarie, l’autografo e gli spartiti; in “Allestimenti” sono raccolti bozzetti, figurini, tavole di attrezzeria, manifesti, locandine, disposizioni sceniche; infine le “Registrazioni storiche” presentano un elenco di brani musicali provenienti dagli archivi discografici dell’Istituto nazionale di studi verdiani e dell’Istituto Centrale Beni sonori e Audiovisivi (ICBSA).
Dalla prima messa in scena di Oberto conte di San Bonifacio a quella dell’ultimo capolavoro, Falstaff, la produzione verdiana si snoda per oltre cinquant’anni all’interno della tumultuosa storia dell’Ottocento italiano. Alle rivoluzioni armate fecero da contrappunto le radicali trasformazioni di un linguaggio operistico sempre più ammaliato dalle fascinazioni musicali d’Oltralpe, nei confronti delle quali Verdi venne accusato dai suoi detrattori di epigonismo (celebre rimase il giudizio di Bizet su Don Carlos: «Verdi n’est plus italien; il veut faire du Wagner»). Il Maestro per tutta risposta rimase fedele alle sue convinzioni, fondate su una originalissima rielaborazione di stilemi tradizionali. Il compositore emiliano – pur con le opportune licenze – rispettò l’articolazione dell’impianto a numeri chiusi dell’opera italiana, ma ne sovvertì radicalmente lo spirito, facendo leva su una vocalità appassionata ed emotivamente coinvolta – ben lontana dall’apollinea classicità della stagione belcantistica – e su libretti verseggiati ad hoc per esaltare la vis drammatica del tessuto musicale.
Un nuovo linguaggio che si alimenta con apporti provenienti in particolare dal grand-opéra francese di cui assorbe i canoni anche a livello scenografico, optando per messinscene in grado di colpire l’occhio dello spettatore. Ad alcune lettere Verdi affidò l’orgogliosa rivendicazione della propria cifra stilistica, faticosamente conquistata e strenuamente difesa, come in questa missiva datata 16 luglio 1875 diretta all’amico Opprandino Arrivabene: «Chi vuol essere melodico come Bellini, chi armonista come Meyerbeer. Io non vorrei né l’uno né l’altro, e vorrei che il giovane quando si mette a scrivere, non pensasse mai ad essere né melodista, né armonista, né realista, né idealista, né avvenirista, né tutti i diavoli che si portino queste pedanterie. La melodia e l’armonia non devono essere che mezzi nella mano dell’artista per fare della Musica, e se verrà un giorno in cui non si parlerà più né di melodia né di armonia né di scuole tedesche, italiane, né di passato né di avvenire ecc. ecc. ecc. allora forse comincierà il regno dell’arte».