Quando alla fine del maggio 1832 Verdi arriva a Milano, capitale del Lombardo-Veneto, all’epoca sotto la dominazione asburgica, deve sostenere la prova di ammissione al Conservatorio. La commissione giudica positiva la sua prova di composizione, ma non quella al pianoforte perché l’impostazione della mano è errata, difetto che, data l’età del candidato, risulta ormai impossibile correggere. Inoltre Verdi, che non è neppure suddito del Lombardo-Veneto, ha superato di quattro anni il limite di età per l’ammissione e dunque gli viene negato l’accesso al Conservatorio.
Dopo un tale smacco, diventa improbabile per Verdi poter contare sulla borsa di studio del Monte di pietà; interviene però ancora una volta Barezzi che finanzia pressoché da solo il mantenimento del giovane in città e le lezioni private presso il musicista pugliese Vincenzo Lavigna, allievo favorito di Paisiello e maestro al cembalo al Teatro alla Scala. Sotto la sua guida il giovane si impadronirà della tecnica del contrappunto e non mancherà di frequentare assiduamente il palcoscenico milanese in stagioni dominate dalle opere di Mercadante e Donizetti. Acquisite dunque solide basi, Verdi inizia a muovere i primi passi: nell’aprile del 1834 dirige La Creazione di Haydn al Teatro dei Filodrammatici, il cui coro è composto in parte da esponenti dell’aristocrazia milanese, attraverso i quali entra gradualmente in contatto con i salotti culturali della città, incentrati intorno a figure femminili dalla condotta spesso anticonformista e dai sentimenti vivacemente antiaustriaci come le contesse Giulia Samoÿloff, Giuseppina Appiani, Clarina Maffei, Emilia Morosini.
Intanto nel 1833 muore l’organista Provesi e iniziano le manovre per la successione che scatenano una furiosa contesa: a Verdi, candidato di Barezzi, viene opposto Giovanni Ferrari, maestro di cappella di Guastalla, che nel 1834 ottiene con un colpo di mano il posto vacante. Ma il 28 febbraio 1836 Verdi supera l’esame per la carica di “maestro di musica” a Busseto: a Ferrari resta così solo l’organo della Collegiata, e Verdi fa ritorno al borgo natio, abbandonando momentaneamente i suoi sogni di gloria e sposando il 4 maggio di quell’anno la fedele Margherita Barezzi.
Tuttavia le gioie familiari saranno offuscate dalla morte prematura di Virginia, la primogenita della giovane coppia. Gli anni trascorsi a Busseto dal 1836 al 1838 segnano una battuta di arresto, ma non interrompono il processo di inserimento di Verdi nel mondo musicale milanese: la sua raccolta di Sei romanze per canto e pianoforte viene pubblicata dall’editore Canti di Milano, mentre il Notturno a tre voci “Guarda che bianca luna” con accompagnamento di flauto e pianoforte gli guadagna ampi elogi sulla «Gazzetta privilegiata di Milano». Infine la promessa della rappresentazione della sua prima opera Oberto conte di san Bonifacio al Teatro dei Filodrammatici spinge Verdi a compiere il grande passo: nel febbraio 1839 lascia Busseto e il posto di maestro di musica per trasferirsi con la moglie e il figlio Icilio nella capitale. Ma gli esordi non sono facili: la prevista rappresentazione dell’Oberto, che si avvaleva di una compagnia di canto d’eccezione, tra cui il celebre soprano lodigiano Giuseppina Strepponi, sfuma per l’indisposizione del tenore. La Strepponi raccomanda però la partitura all’impresario del Teatro alla Scala Bartolomeo Merelli che accetta il rischio di far debuttare il giovane compositore nel massimo teatro cittadino. Quando il 17 novembre 1839 l’opera va in scena, ottiene un lusinghiero successo che lenisce solo in parte il dolore dei due coniugi per la morte del figlio Icilio, avvenuta pochi giorni prima del debutto di Oberto. Visto l’esito favorevole, Merelli offre a Verdi un contratto per tre nuove opere. La prima sarà un soggetto comico, basato su un vecchio libretto scritto da Felice Romani nel 1818, Un giorno di regno, ossia Il finto Stanislao, la cui composizione è funestata da un’ennesima sciagura familiare, la morte della moglie Margherita il 18 giugno 1840. Per colmo di sciagura la nuova opera, andata in scena alla Scala il 5 settembre 1840, è un fiasco clamoroso. Verdi, provato da tante avversità, medita di abbandonare tutto e chiede a Merelli di rescindere il suo contratto. L’impresario, che continua a credere in lui, pur acconsentendo alla richiesta, non chiude tuttavia completamente i rapporti con il giovane compositore, cosicché quando, ad appena tre mesi dall’insuccesso di Un giorno di regno, Verdi si imbatte in un soggetto come quello di Nabucco su libretto di Temistocle Solera, capace di stimolare la sua ispirazione, il ritorno alla musica diventa inevitabile.
L’incontro con quel testo che doveva cambiare il destino di Verdi è narrato dallo stesso musicista:
“Era un gran copione a caratteri grandi, come s’usava allora: lo faccio in rotolo e salutando Merelli mi avvio a casa mia […]. Con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomisi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: ‘Va pensiero, sull’ali dorate’. Scorro i seguenti versi e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre. Leggo un brano, ne leggo due: poi fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto. Ma sì… Nabucco mi trottava pel capo!… Il sonno non veniva: mi alzo e leggo il libretto, non una, ma due, ma tre, tanto che al mattino si può dire ch’io sapeva a memoria tutto quanto il libretto di Solera”.
Alla fine del 1841 l’opera è terminata e il 9 marzo 1842 va in scena alla Scala con Giuseppina Strepponi nel ruolo di Abigaille, ottenendo un trionfo colossale che trasforma di colpo Verdi nel beniamino del pubblico e dei salotti aristocratici: il giovane provinciale diventa un protagonista della vita milanese, ammirato e conteso dalla migliore società.