Quando Verdi si affaccia sulla scena operistica italiana alla fine degli anni Trenta, dominavano ancora Bellini, Donizetti e Rossini, anche se quest’ultimo dopo la composizione di Guglielmo Tell aveva da tempo abbandonato il teatro.
Ma al di là di questi mostri sacri, Verdi doveva farsi largo tra un’agguerrita concorrenza in un campo quale quello del melodramma che per alcuni aspetti rappresentava l’unica vera industria internazionale in un paese dall’economia ancora eminentemente agricola. Non era facile per un giovane compositore salire alla ribalta, ma ancor più difficile restarvi: si contavano a decine i casi di musicisti osannati per un titolo fortunato, a cui poi il pubblico aveva girato le spalle, condannandoli all’insuccesso e all’oblio. Nell’Ottocento musicale italiano si bruciavano con impressionante rapidità e con spietata indifferenza nomi di compositori e titoli di opere.
All’epoca dell’esordio di Verdi, un nome su cui si appuntavano molte speranze era quello del pugliese Saverio Mercadante, esponente della scuola napoletana, che dopo aver riscosso alcuni buoni successi, aveva trionfato alla Scala di Milano nel 1837 con Il giuramento e al San Carlo di Napoli con Il bravo nel 1839. Ma l’inarrestabile ascesa di Verdi e il suo travolgente genio finirono per relegare in secondo piano le opere di Mercadante, anche se non di rado caratterizzate da una felice vena melodica unita a una forte coscienza strumentale e a una notevole capacità di caratterizzazione drammatica. Ma se il musicista di Busseto, l’orso delle Roncole, come lui stesso si definiva, non ebbe troppe difficoltà ad affermarsi in patria, dove non tardò anzi a svolgere nel campo del teatro musicale un’assoluta preminenza, si trovò di fronte sulla scena europea compositori di grande prestigio. Tra questi occupa senza dubbio un posto rilevante il tedesco Giacomo Meyerbeer, formatosi al contatto con l’arte italiana e affermatosi inizialmente proprio in Italia, dove i suoi lavori, da Emma di Resburgo a Il crociato in Egitto, ottennero un buon successo, sull’onda del quale si trasferì in Francia, dove divenne il massimo esponente del grand-opéra parigino. Si trattava di un genere caratterizzato da una grandiosità sia scenica che musicale, basato dunque su allestimenti particolarmente spettacolari, i cui costi erano sostenibili solo grazie ai finanziamenti pubblici di cui godeva l’Opéra di Parigi, e su soggetti di norma ispirati a grandi eventi storici, ricchi di passioni e potenti contrasti che consentivano al compositore di dare libero sfogo a una musica di grande efficacia e ampia durata che doveva rigorosamente includere uno o più balletti. Meyerbeer, giovandosi della collaborazione del più celebre e fecondo librettista francese Eugène Scribe, eccelse in questo genere. Robert le Diable, Les Huguenots, L’Africaine, Le prophète ottennero un enorme successo che negli anni Trenta e Quaranta fece di questo compositore il più amato dal pubblico parigino. E’ per questo che Verdi preparò con grande cura il suo debutto a Parigi con Les Vêpres Siciliennes, consapevole di una sfida molto impegnativa che poteva o danneggiarlo gravemente o consacrarlo al successo internazionale. Del resto, qualche anno dopo su questo medesimo terreno fallirà, con il clamoroso tonfo parigino del Tannhäuser, Richard Wagner, la cui figura viene nel corso degli anni Settanta e Ottanta sempre più contrapponendosi a quella di Verdi come il vate di una nuova musica e di una rivoluzionaria concezione del teatro, antitetiche al melodramma tradizionale. Ma a ben guardare, le convinzioni verdiane in materia di drammaturgia mostrano sorprendenti punti di contatto con l’estetica wagneriana, perché entrambi gli autori perseguono l’ideale di un teatro libero dagli schematismi convenzionali, nel quale devono fondersi in unità inscindibile poesia e musica. In una lettera a Cammarano del 4 aprile 1851 Verdi scrive in occasione della genesi del Trovatore: “Se nelle opere non vi fossero né cavatine né duetti, né terzetti, né cori, né finali, ecc. ecc., e che l’opera intera non fosse (sarei per dire) un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto”, un’affermazione che rivela una sintonia di intenti con il grande rivale tedesco. Del resto Verdi anche se guardò con sospetto all’influenza che gli scritti e le teorie di Wagner potevano avere sui giovani compositori italiani, sviandoli dalla grande tradizione del nostro paese per spingerli a imitare servilmente lo stile tedesco, comprese però la grandezza del suo antagonista: “Vagner non è una bestia feroce come vogliono i puristi, né un profeta come lo vogliono i suoi apostoli. E’ un uomo di molto ingegno che si piace delle vie scabrose, perché non sa trovare le facili e le più dritte”. E quando Wagner morì nel 1883 Verdi, colpito profondamente da quella scomparsa, scrisse a Giulio Ricordi: “Triste! Triste! Triste! Wagner è morto! Leggendone jeri il dispaccio, ne fui, sto per dire, atterrito! Non discutiamo. E’ una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un’impronta potentissima nella Storia dell’Arte!!!”.