Circondato dalla fama di massimo compositore italiano vivente, giunge per Verdi il momento di confrontarsi con il pubblico dell’Opéra di Parigi, che rappresenta per lui, come per qualunque altro musicista del tempo la meta più ambiziosa e impegnativa. Vero è che Verdi aveva già scritto per il teatro parigino la Jérusalem, rifacimento dei suoi Lombardi alla prima crociata, ma si tratta adesso di cimentarsi in un’opera originale in cinque atti su libretto di Eugène Scribe, il maggior librettista francese vivente, da rappresentarsi nella stagione di Carnevale del 1855. Il soggetto prescelto è desunto, con un’ambientazione storica diversa, da un testo approntato da Scribe anni prima per un’opera di Donizetti Il duca d’Alba, rimasta incompiuta. La vicenda è adesso trasferita in Sicilia nel 1282, all’epoca cioè dell’insurrezione contro i francesi, nella quale la mitologia risorgimentale vedeva un preludio del riscatto italiano dalla dominazione straniera. Nel grande affresco storico si inserisce un dramma familiare, incentrato sul personaggio del governatore Monfort che dopo aver scoperto in uno dei rivoltosi il proprio figlio è dilaniato tra la ragion di Stato e gli affetti privati. E’ la prima volta che Verdi si cimenta nella composizione di un grand-opéra, obbedendo a tutte le regole del caso: dalla grandiosità del soggetto alla composizione di ballabili alla durata di oltre tre ore, una fatica, come dirà lo stesso Verdi “da ammazzare un toro”. La sfida è però vinta brillantemente perché Les Vêpres Siciliennes, andati in scena all’Opéra il 13 giugno 1855, otterranno un grande successo, a cui farà da cassa di risonanza la coincidenza dell’Esposizione universale, voluta da Napoleone III a Parigi. Pochi mesi dopo, il 26 dicembre 1855, l’opera, tradotta in italiano, arriva anche al Teatro Ducale di Parma, dove viene però rappresentata per ragioni di censura con il titolo di Giovanna de Guzman.
Dopo l’adattamento per il pubblico parigino del Trovatore, trasformato con l’inserimento del balletto d’obbligo in Le trouvère (12 gennaio 1857), Verdi si dedica alla composizione del Simon Boccanegra, tratto dal dramma omonimo dello stesso autore del Trovatore, lo scrittore spagnolo Gutierrez. L’opera, rappresentata alla Fenice di Venezia il 12 marzo 1857, ottiene una fredda accoglienza, dovuta sia alla complessità della trama sia alla “tinta” cupa e desolata in cui si riflette la solitudine dell’uomo di potere; tuttavia Verdi, convinto della validità del soggetto, accoglierà molti anni dopo, nel 1880, l’invito di Giulio Ricordi a rivedere la partitura e con l’aiuto di Arrigo Boito riscriverà il finale del primo atto e alcune parti del secondo e del terzo. Una volta terminato il rifacimento dello Stiffelio in Aroldo, che inaugura con successo effimero il Teatro di Rimini il 16 agosto 1857, Verdi passa a lavorare a un’altra opera per il Teatro San Carlo di Napoli. Dopo molte esitazioni, la scelta cade su un soggetto di Scribe, Gustave III ou Le Bal masqué, già musicato da Auber con esito modesto e incentrato sull’assassinio nel 1792 del re di Svezia Gustavo III per mano di un gentiluomo di corte. L’argomento attrae Verdi per la mescolanza di elementi drammatici e giocosi, in bilico fra tragedia e commedia, che gli consentono di dipingere una corte briosa e scintillante e un protagonista diviso tra amore e amicizia. Tuttavia i problemi che il libretto, redatto da Antonio Somma, incontra con la censura borbonica fanno apparire lievi quelli avuti a suo tempo con Rigoletto. Il fallito attentato contro Napoleone III ad opera dell’italiano Felice Orsini il 3 gennaio 1859 rende ancora più strette le maglie della censura che non accetta di veder rappresentato sulla scena un regicidio; la proposta di adattare la musica composta al libretto Adelia degli Adimari, una tradizionale storia d’amore ambientata nella Firenze del Trecento, viene respinta con sdegno da Verdi che ha troppo rispetto per la sua arte per ritenerla interscambiabile con le più diverse situazioni drammatiche. Prende dunque contatti con l’impresario Vincenzo Jacovacci per rappresentare l’opera a Roma, dove vengono comunque chiesti dei cambiamenti – lo spostamento del luogo d’azione dalla Svezia alla Boston del Seicento, la trasformazione della veggente in un’indovina di colore – che non snaturano però l’essenza del dramma. Andato in scena il 17 febbraio 1859, Un ballo in maschera otterrà un successo travolgente, accompagnato dalle grida “Viva VERDI”, lo slogan politico creato appunto in quell’occasione e che rivela come fossero ormai maturi gli eventi che di lì a pochi mesi, nella primavera-estate dello stesso anno, dovevano portare alla sconfitta dell’Austria e all’unità d’Italia.
Nel gennaio 1861 Verdi viene invitato dal Teatro Imperiale di San Pietroburgo a scrivere una nuova opera per la stagione successiva: la scelta cade sul dramma spagnolo Don Alvaro o La fuerza del sino di Ángel de Saavedra, duca di Rivas, rappresentato a Madrid nel 1835, dove le complicate vicende dei personaggi sono collocate nel quadro di un grande affresco di respiro epico. Per la stesura del libretto si rivolge ancora una volta a Piave, al quale raccomanda, come al solito, soprattutto sintesi e incisività poetica, suggerendogli di ispirarsi per la scena dell’accampamento militare del terzo atto al dramma di Schiller Il campo di Wallenstein, quadro imponente, colorito, straordinariamente vario e vivo della guerra dei Trent’Anni. Verdi arriva a San Pietroburgo il 6 dicembre 1861, nel pieno del grande inverno russo, per completare la strumentazione della sua opera, ma a causa dell’indisposizione della primadonna la rappresentazione viene rimandata all’autunno successivo e Verdi ne approfitta per recarsi prima a Parigi e poi a Londra, dove compone per l’Esposizione universale del maggio 1862 una cantata per voce, coro e orchestra su testo del giovane Arrigo Boito, l’Inno delle nazioni. Finalmente La forza del destino va in scena a San Pietroburgo il 10 novembre 1862, ottenendo un successo strepitoso. Tuttavia, Verdi non è del tutto convinto del finale dell’opera che termina con il suicidio di don Alvaro in un clima di esasperata drammaticità: troverà in seguito la soluzione più adeguata, quando sotto l’influsso dei Promessi sposi di Manzoni, da lui incontrato nel 1868 nel salotto di Clara Maffei, deciderà di concludere la vicenda nel segno della cristiana rassegnazione: don Alvaro non maledice più il Cielo, ma si piega al volere divino e accetta il peso del suo destino. E’ in questa versione, arricchita fra l’altro della celebre Sinfonia, che La forza del destino verrà rappresentata con grande successo il 27 febbraio 1869 alla Scala, il teatro che aveva visto i primi trionfi del maestro e da cui per i contrasti in seguito subentrati egli si era tenuto lontano per un quarto di secolo.
Il prossimo impegno di Verdi è con l’Opéra di Parigi e la scelta del soggetto, dopo un primo vagheggiamento del Re Lear shake speriano, progetto che ritorna periodicamente senza però mai trovare concreta attuazione, cade sul dramma di Schiller Don Carlos. Il libretto, approntatogli dai francesi Joseph Méry e Camille Du Locle, si iscrive nel genere del grand-opéra, in cui i conflitti privati si intrecciano all’interno di un vasto affresco storico che permette al musicista di raffigurare la cupa atmosfera della corte spagnola di Filippo II e i destini individuali dei protagonisti schiacciati dal peso del dovere, della ragion di Stato e della gerarchia sociale. Verdi, entusiasta del soggetto, si dedica con fervore alla composizione, ma alla fine l’opera risulta troppo lunga anche per le mastodontiche dimensioni del grand-opéra. Il musicista è dunque costretto a tagliare diversi pezzi, un espediente che non evita però alla ‘prima’ dell’11 marzo 1867 l’accoglienza piuttosto fredda del pubblico parigino e le riserve della critica. Verdi, consapevole che le dimensioni del Don Carlos, ne avrebbero ostacolato la circolazione nei teatri italiani per l’eccessivo sforza finanziario connesso al suo allestimento, interviene a più riprese con tagli e sostituzioni, ma solo nel 1883 pone mano a una profonda revisione della partitura, eliminando tutto il primo atto e i ballabili con un risultato da lui stesso giudicato soddisfacente: “Il D. Carlos è ora ridotto in quattro atti e sarà più comodo, e credo anche migliore artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo”. Questa nuova versione in italiano, andata in scena con successo il 10 gennaio 1884 alla Scala, non porrà però fine alle vicende dell’opera perché nel 1886 Verdi ne realizzerà un’altra per Modena nella quale viene ripristinato il primo atto, ma non le danze del terzo.