Nel dicembre 1869 Verdi riceve l’offerta di Ismail Pascià, chedivé (vicerè) d’Egitto di comporre un’opera per celebrare solennemente l’apertura del canale di Suez, avvenuta nel novembre dello stesso anno. Per l’occasione Ismail Pascià aveva fatto costruire un teatro d’opera al Cairo, inaugurato, a pochi giorni di distanza dall’apertura del canale, con il Rigoletto, diretto dall’ex allievo e collaboratore di Verdi, Emanuele Muzio. Il musicista rifiuta all’inizio la proposta, ma quando tramite l’amico Camille Du Locle riceve lo schema di un libretto d’opera a firma dell’egittologo francese Auguste Mariette, basato su una storia d’amore ambientata nell’antico Egitto, Verdi si lascia tentare e accetta di mettere in musica il soggetto. La stesura del testo viene affidata al letterato Antonio Ghislanzoni che, seguendo fedelmente le indicazioni del compositore, modifica in alcuni punti l’impianto originale di Mariette – è ad esempio un’idea di Verdi che il tradimento di Radames risulti involontario – creando una cornice spettacolare sul genere del grand-opéra, all’interno della quale si scontrano le passioni individuali dei protagonisti. L’Aida viene così rappresentata al Cairo il 24 dicembre 1871 sotto la direzione d’orchestra del compositore Giovanni Bottesini, a cui farà di lì a poco seguito, l’8 febbraio 1872, l’esecuzione alla Scala, seguita di persona dallo stesso Verdi, attento a tutti gli aspetti della messinscena, da quelli musicali a quelli visivi. Il successo di entrambe le rappresentazioni è travolgente, anche se alcuni critici, sotto l’influsso del dilagante wagnerismo, sottolineano una commistione tra le nuove tendenze musicali e la persistenza di stilemi tradizionali. In realtà il linguaggio di Verdi si evolve restando sempre fedele a un patrimonio musicale nazionale che, da Palestrina a tutto il Settecento, costituisce il fondamento a cui, a suo giudizio, devono attenersi tutti i compositori italiani: è appunto questo il senso della celebre frase verdiana “Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Verdi ritoccherà la partitura di Aida, ampliandone le danze, per il debutto all’Opéra di Parigi il 22 marzo 1880, che vede questa volta concordi nell’entusiastico consenso pubblico e critica.
Un’altra tappa nello sviluppo dello stile verdiano è segnata dalla Messa da Requiem, scritta per celebrare il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, avvenuta il 22 maggio 1873. In realtà già nel 1868 Verdi aveva concepito l’idea di un Requiem da dedicare alla memoria di Gioachino Rossini, scomparso il 13 novembre di quello stesso anno. In una lettera aperta, pubblicata nella «Gazzetta musicale di Milano» del 22 novembre 1868, Verdi invitava tutti i maggiori musicisti italiani a partecipare alla composizione di una Messa in onore dell’illustre defunto. Ma questa Messa per Rossini, articolata in tredici parti, affidate ciascuna a un maestro di spicco – Verdi riservò per sé l’ultima sezione, il “Libera me, Domine” – non andò più in porto. L’idea di un Requiem da dedicare a un grande italiano doveva diventare realtà solo sei anni dopo, in occasione appunto della morte di Alessandro Manzoni, verso il quale Verdi nutrì sempre sentimenti di autentica venerazione: l’incontro con il letterato a Milano nel 1867, grazie alla mediazione di Clarina Maffei, fu per Verdi una delle più toccanti esperienze, e ciò spiega l’esigenza di celebrare la memoria del letterato con una Messa da Requiem: “E’ un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come uomo, modello di virtù e patriottismo”. Per la nuova composizione Verdi riutilizza il “Libera me, Domine”, composto per la mai eseguita Messa in onore di Rossini, e il nuovo lavoro viene presentato il 22 maggio 1874 nella chiesa di San Marco di Milano sotto la direzione dello stesso Verdi. Alla partitura viene decretato un trionfo enorme che si riconferma in tutte le maggiori capitali europee. Verdi è ormai al culmine della fama, anche se a volte deve subire le indirette frecciate delle nuove generazioni che auspicano un rinnovamento della musica italiana attraverso il contatto con le correnti più avanzate della cultura europea e con Wagner in particolare. Tra questi moderni intellettuali, un posto eminente occupa Arrigo Boito, poeta, letterato e musicista, appartenente al movimento della “scapigliatura”, che aveva già suscitato le ire di Verdi per un’ode dove dipingeva lo stato di avvilimento dell’arte italiana, il cui altare era “bruttato come un muro di lupanare”. Il maestro, nella sua veste di massimo rappresentante della tradizione operistica italiana, si era sentito chiamato in causa, un’offesa non più dimenticata che, insieme alla crescente infatuazione per le correnti d’oltralpe, lo spinge a rinsaldarsi nella decisione di non scrivere più musica e di ritirarsi a vita privata. Ma da questo proposito sarà indotto a recedere proprio per merito del suo esecrato nemico, quell’Arrigo Boito che grazie ai buoni uffici di Giulio Ricordi e di Clarina Maffei, dopo aver smussato le punte più estreme della sua vena polemica, si riconcilierà con Verdi, di cui diverrà anzi un intimo e fedele amico, e al quale va principalmente ascritto il merito di aver persuaso il musicista con infinito tatto e pazienza a uscire dal silenzio per donarci i suoi due ultimi capolavori: Otello e Falstaff. Dopo la morte del maestro, Boito espresse il suo sincero affetto scrivendo a un amico queste parole: “La servitù volontaria ch’io consacrai a quell’uomo giusto, nobilissimo e veramente grande è l’atto della mia vita di cui più mi compiaccio”.