La geografia verdiana non può che focalizzare la propria origine nel villaggio delle Roncole, piccola frazione di Busseto, nella bassa Parmense, dove il Maestro nacque il 10 ottobre del 1813. Trattandosi di territorio sottoposto al dominio francese (faceva parte del napoleonico Regno d’Italia di Eugenio Beauharnais), Verdi venne registrato allo Stato civile del Comune di Busseto come Joseph Fortunin François. Alle Roncole Giuseppe trascorse i suoi primi dieci anni di vita, facendo la spola fra l’osteria del padre Carlo (nonché abitazione, al primo piano, della famiglia Verdi), la scuola elementare del maestro don Pietro Baistrocchi e la chiesa di S. Michele, dove lo stesso sacerdote, organista, impartì le prime lezioni di musica al giovane. Nel 1823 il ragazzino delle Roncole si trasferì nella vicina Busseto per frequentare il ginnasio, soggiornando presso il ciabattino Pugnatta. Nella cittadina parmense Verdi visse stabilmente per circa nove anni, intessendo relazioni che risulteranno fondamentali per la propria crescita umana e artistica: prima fra tutte quella con Antonio Barezzi, mèntore, nonché futuro suocero di Verdi, che permise al compositore – grazie ad un cospicuo sostegno economico – di entrare a contatto con quell’ambiente musicale milanese che tenne a battesimo la carriera operistica del «villanello delle Roncole». Dal 1832 al 1839 Verdi fece numerosi viaggi sulla direttrice Busseto-Milano, preoccupato sia di alimentare le proprie aspirazioni professionali nel capoluogo lombardo che di curare i propri interessi economici in Emilia, dove collaborò – firmando composizioni di vario genere – con la Società filarmonica di Barezzi e insegnò strumenti a tastiera e canto nella scuola di musica del Comune di Busseto. Questi furono anche gli anni in cui Verdi, dopo le nozze con Margherita Barezzi (4 maggio 1836) e la nascita dei figli Virginia Maria Luigia (26 marzo 1837) e Icilio Romano Carlo Antonio (11 luglio 1838), dovette assistere nell’arco di un biennio alla tragica scomparsa di tutti i componenti della propria famiglia (il 12 agosto 1838 a Busseto morì Virginia, seguita l’anno successivo, a Milano, da Icilio Romano il 22 ottobre 1839 e dalla moglie Margherita il 18 giugno 1840). Durante questi mala tempora il Maestro decise di rassegnare le dimissioni dall’incarico triennale stipulato con il Comune di Busseto (28 ottobre 1838) e si trasferì definitivamente a Milano a partire dal mese di febbraio del 1839. Da quel viaggio di sola andata passarono ben cinque anni prima che Verdi riprendesse contatto con i luoghi natìi: fu l’acquisto del bussetano Palazzo Dordoni-Cavalli e di alcuni terreni agricoli alle Roncole a riportarlo – durante quelli che lo stesso musicista definì, tanto fu assorbito dal lavoro, i suoi «anni di galera» – nella propria terra d’origine. Agli strascichi polemici successivi all’esclusione di Verdi, nel 1834, dalla nomina ad organista della chiesa di San Bartolomeo seguirono infatti nuovi motivi di frizione fra il Maestro e i Bussetani, soprattutto in concomitanza con la definitiva consacrazione di Verdi nell’Olimpo del teatro d’opera, che spinse i conterranei a recriminare presunti debiti di riconoscenza del musicista nei propri confronti. A ciò si aggiunse dall’agosto 1849 la spinosa questione legata alla convivenza more uxorio di Verdi con Giuseppina Strepponi a Palazzo Dordoni-Cavalli, che suscitò tali e tanti pettegolezzi tra i Bussetani da costringere la coppia, nel 1851, a trasferirsi nel podere di Sant’Agata di Villanova.
L’indignazione di Verdi di fronte a tanta ipocrita piccineria è mirabilmente racchiusa in una lettera che il musicista inviò al suocero Antonio Barezzi il 21 gennaio 1852: «Ella vive in un paese che ha il malvezzo di intricarsi spesso degli affari altrui, e disapprovare tutto quello che non è conforme alle sue idee; io ho per abitudine di non immischiarmi, se non chiesto, negli affari degli altri, perché appunto esigo che nessuno s’intrighi de’ miei. […] io reclamo la mia libertà, perché tutti gli uomini ne hanno diritto, e perché la mia natura è ribelle a fare a modo altrui». Sempre nella stessa missiva Verdi – ad ulteriore testimonianza dell’inossidabile complicità che conservò con Barezzi anche dopo la morte della prima moglie Margherita – si lancia in una appassionata difesa di Giuseppina Strepponi che, più in generale, suona come una netta presa di posizione del Maestro rispetto ai pregiudizi del tempo nei confronti di donne con un passato tumultuoso alle spalle: «In casa mia vive una Signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto da ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni […] Bensì io dirò che a Lei, in casa mia, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nessuno è permesso mancarvi sotto qualsiasi forma». Solamente grazie al processo di unificazione nazionale, nel triennio 1859-61, si ricompose la frattura fra il Maestro e i suoi conterranei: Verdi infatti elargì ingenti somme di denaro sia per l’acquisto di armi a favore dei combattenti emiliani che per sostenere economicamente le famiglie dei caduti, assumendo in seguito la rappresentanza del territorio bussetano all’Assemblea delle Province parmensi e, nel 1861, sedendo sugli scranni del Parlamento nazionale come deputato per la circoscrizione di Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza).